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Caratteristiche del giudaismo rabbinico 2

 

Antropologia biblico-ebraica

L’uomo è questa profonda unità di materia e spirito in cui Dio ha impresso la sua immagine. Se accettassimo la concezione greca di uomo, dove l’anima è immortale per natura, allora il concetto di risurrezione sarebbe la pienezza della salvezza, ma dell’anima, perché il corpo è l’elemento negativo corruttibile e che spinge al male.
Infatti, la fonte del peccato per i greci è la materia, mentre per cristiani ed ebrei il peccato originale per i primi e la disobbedienza di Adamo ed Eva per i secondi (che non configura un peccato originale), è l’orgoglio di voler diventare come Dio. In questo caso il male non viene dal corpo ma dalla sfera più nobile cioè quella spirituale che sfocia nell’orgoglio dell’uomo di voler essere come Dio. Per l’ebraismo, pero, Dio ha messo nell’uomo sia l’istinto al bene sia l’istinto al male. In certi passi parrebbe che l’istinto al male non sia sempre pienamente malvagio, ma causi aspetti positivi come il generare figli e lavorare.
Un altro aspetto da sottolineare come caratteristica della religione ebraica è il valore che in essa ha la storia. Secondo alcuni autori il popolo ebraico è il “popolo della storia” che ha sviluppato più di ogni altro il senso della storia. Sostanzialmente Dio ha scelto come ambito primario, fondamentale e privilegiato in cui giocare il suo rapporto con l’umanità e in particolare con il popolo d’Israele, la storia.
La religione ebraica forse più che una religione è la storia del rapporto di Dio con il suo popolo. Nell’ebraismo c’è una visione completamente ottimistica della storia. Questo perché la storia è guidata da Dio che è più forte del peccato, e garantisce in senso assoluto un esito positivo della storia. Occorre, tuttavia, aggiungere che quell’aspetto della storia come tensione verso il futuro in attesa del ritorno del Messia ebraico, si sviluppa solo in certe correnti messianiche ed apocalittiche, negli ultimi tre secoli a.e.v., mentre manca nel giudaismo della Torah e in quello del Tempio, dopo la sua distruzione del 70 e.v.
 

Il Giudaismo rabbinico nasce dunque come sviluppo della tendenza farisaica incentrata intorno alla figura del maestro (rabbì) un laico, e all’insegnamento della Toràh che ne costituisce il centro.

Questo giudaismo che si sviluppa a partire dal 70 e.v. e che continua la sua fase formativa fino ai secc. VI-VII e.v. quando sarà interrotta la redazione del Talmud Yerushalmi, mentre sarà compiuta quella del Talmud Babilonese, che diverrà quello considerato valido e ufficiale. Essendosi gli ebrei sparsi nella diaspora occidentale e orientale, devono ripensare la struttura religiosa su categorie nuove, perché quelle vecchie sono state distrutte: la Terra santa non c’è più e così pure il Tempio con i suoi sacrifici di animali in esso offerti a Dio, che saranno sostituiti dal sacrificium laudis ossia l’offerta della lode e della preghiera, mentre il tempio sarà sostituito dalla sinagoga, che ancor oggi gli ebrei chiamano Tempio. Questa tendenza rabbinica continua dunque ed incrementa lo sviluppo di un’istituzione, già presente nel giudaismo, dei secoli precedenti alla guerra giudaica e cioè l’istituzione della Sinagoga e dell’Accademia di studi della scuola rabbinica.
Sinagoga è un termine greco che vuol dire radunanza, ed indica il luogo dove si radunano gli ebrei per la preghiera, la lettura e il commento della Torah e di altri libri della Scrittura; non si tratta di un luogo sacro della stessa sacralità del Tempio; ma la sacralità dei riti viene nella sinagoga grazie al fatto che nell’Aron ha-qodesh, ossia nell’Armadio santo, è contenuto il Sefer Torah, e a volte anche diversi Sifre Torah. Inoltre sono i rabbini a guidare la preghiera, la lettura e il commento della Toràh, anche se è possibile incaricare una persona non rabbino a leggere la parashah, ossia la sezione settimanale della Torah. Il Giudaismo del tempio è incentrato nella vita liturgica, nei riti, nelle preghiere che si fanno al tempio. Ruolo di primo piano al suo interno è esercitato dai sacerdoti che svolgono il culto sacrificale. È una specie di visione teologica articolata in cui tutta la vita dell’uomo, tutta la storia trovano nella liturgia del tempio il loro significato e compimento. Essa è il vertice di tutta la vita religiosa e di tutta la storia d’Israele: fonte della santificazione, della vita religiosa, della benedizione di Dio.
Abbiamo detto che il Giudaismo Rabbinico può essere chiamato anche farisaico. Il fariseismo non può essere inteso come sinonimo di ipocrisia religiosa, di falsità, come pretesa di autogiustificazione di fronte a Dio attraverso gesti esteriori. Questa è un’immagine del fariseismo fortemente caricaturale e polemica che ci deriva in gran parte dai Vangeli. Questa denuncia che i Vangeli fanno del fariseismo è legata non tanto al fariseismo in quanto tale ma ad una sua possibile deviazione nel senso di ipocrisia e superficialità religiosa che può colpire allo stesso modo qualsiasi altra forma religiosa, compreso il cristianesimo. La condanna che Gesù fa del fariseismo è proprio contro le sue deviazioni concrete. Inoltre ebraismo e cristianesimo nel primo secolo a.v. erano in lotta fra di loro, e come sempre, ciascuno sviliva l’altro, quando in verità erano la divaricazione avvenuta dello stesso fiume unico nel primo millennio a.e.v. Non dimentichiamo che i Vangeli nascono in un determinato contesto storico, in una situazione vitale (Sitz im Leben) in cui alcuni decenni dopo la resurrezione di Gesù si è scatenata una polemica molto dura tra il gruppo cristiano e il gruppo ebraico ufficiale.
Quindi è possibile che questi aspetti polemici siano stati enfatizzati alla luce del contesto storico concreto, in cui Sinagoga e Chiesa si opponevano, affermando entrambi di essere l’autentica continuazione dell’ebraismo antico.Non bisogna dimenticare, invece, che il fariseismo era il meglio della religione ebraica dell’epoca: Paolo stesso si definisce un puro fariseo, e Gesù stesso ha idee e valori simili a quelli dei farisei. In più noi possiamo cogliere dei punti di contatto fra alcune sentenze dei farisei contemporanei di Gesù e il suo insegnamento, perché egli stesso aveva risentito di alcuni aspetti positivi del fariseismo. Quel fariseismo puro, sincero, retto, preoccupato dell’osservanza interiore, dell’amore del prossimo e non solo di una pratica esteriore.
Basti pensare al detto di un rabbì fariseo contemporaneo di Gesù, Hillel:
 
“Non fare al tuo prossimo ciò che è odioso a te, e questa è l’intera Toràh, tutto il resto è commento, va e studia”.
Tale detto presenta un evidente affinità con quanto diceva Gesù:
“Ascolta Israele il tuo Dio, amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore e il prossimo tuo come te stesso”.

 

Altro punto fondamentale del fariseismo è la grande importanza data alle regole della purità rituale, soprattutto nel campo della vita profana (che si rifanno alle regole di purità e impurità contenute nel Levitico). In questo la donna ha un ruolo importante, ad esempio, nella preparazione di cibi e in altre cose essenziali per la purità e la santificazione della vita, e questo è tipicamente farisaico.
Altro elemento è poi un’interpretazione dinamica e vivace delle Scritture. I farisei erano gli esperti delle Scritture, (lo stesso Paolo che è di formazione farisaica dimostra le sue capacità in questo senso) e questo è anche tipico di Gesù.
Altro tratto che dimostra questa affinità è un’analogia tra le parabole di Gesù e l’interpretazione farisaica di tipo aggadico (haggadàh) che vuol dire narrazione, ossia quando il commentatore non è preoccupato di ricavare una norma di condotta del testo biblico, bensì di edificare, di spronare, di spiegare delle verità. È dunque un momento molto libero (scopo parenetico-esortativo).
Altro tratto affine tra Gesù e i farisei è un atteggiamento anti-sacerdotale. Per esempio Gesù nei Vangeli non ha avuto molto a che fare con i sacerdoti del tempio, con i sacrifici. Così per i farisei, essi infatti erano in una velata polemica con il tempio e con i sacerdoti.
 

Abbiamo ancora una certa aderenza e ripresa della linea profetica e del Deuteronomio sia in Gesù che nei farisei.

A questo proposito si potrebbe fare un’appendice.
 
Abbiamo detto che per i farisei il cuore di tutta la loro religione è la Toràh data a Mosè sul Sinai. La Toràh poi nell’insegnamento farisaico si preciserà essere presente in due forme: scritta e orale.
Potrebbe sorgere questo problema: come conciliare questa centralità assoluta della Toràh dei farisei con il discorso piuttosto negativo, polemico di Paolo sulla legge vista come dono di Dio, ma macchiata dal peccato?
San Paolo dice che la Legge ha svolto la funzione di pedagogo: indirizzava verso il Cristo con la cui venuta è donata una nuova legge nello Spirito che non ha più bisogno della Legge Antica.
Sorge a questo punto un’ulteriore domanda: la Legge antica, nel senso in cui ne parla Paolo nelle sue lettere, si identifica con la Toràh?
L’elaborazione teologica di Paolo sulla legge non è più coincidente con la Toràh ebraica. Perché la Toràh ebraica e il discorso sulla legge di San Paolo si inseriscono all’interno di due concezioni teologiche differenti della salvezza e della giustificazione. Per il pensiero ebraico e per l’ebraismo in generale la legge santa indica i precetti e l’uomo se vuole, con l’aiuto di Dio, è capace di osservarli. Infatti, non è che a causa di un ipotetico peccato originale sia caduto in una condizione di radicale corruzione dal quale non è capace di uscire e dunque neppure osservare la Legge di Dio, perché nell’ebraismo non esiste il concetto di peccato originale, che ha irrimediabilmente rovinato ogni uomo, che può essere salvato solo da Dio con il battesimo, prima del quale è schiavo del demonio. L’uomo secondo la concezione ebraica può osservare i precetti, non c’è il concetto di schiavitù del peccato.
Invece nella concezione soteriologica relativa alla salvezza, tipicamente cristiana, l’uomo a causa del peccato non è più capace di compiere i precetti della legge e deve diventare nuova creatura salvata da Cristo e solo allora sarà capace di osservare la legge, non tanto negli aspetti esteriori, quanto nel cuore e nello Spirito. Si tratta di due concezioni diverse della salvezza. Storicamente, dunque, il discorso di Paolo sulla Legge non si può far coincidere con la concezione ebraica della Toràh, perché sono all’interno di ambiti di pensiero differenziati. L’affinità tra alcuni insegnamenti farisaici e quello di Gesù può essere esplicitata anche in altri passi. Nel Talmud babilonese c’è un detto di tradizione farisaica:
 
“non sono venuto per togliere la Legge di Mosè ma ad aggiungere ad essa”.
Questo detto ci ricorda Matteo 5,17-20:
“non sono venuto ad annullare la legge e i profeti, ma a portare a compimento...”.
Ancora, in un testo interpretativo antico databile al sec. III e.v., il Midràsh, che rispetta la matrice del movimento farisaico contemporaneo a Gesù, si leggono queste parole:
“il sabato è stato dato a voi e non voi al sabato”, che ricordano quanto detto da Gesù “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”.
 
L’insegnamento di Gesù e l’insegnamento rabbinico sono due sviluppi che provengono dalla stessa matrice. E noi non possiamo comprendere l’insegnamento di Gesù se non lo studiamo nel contesto e alla luce della dottrina ebraica dell’Antico Testamento e del suo tempo. Per quasi duemila anni, fino ai nostri tempi, i rapporti tra ebraismo e cristianesimo sono stati caratterizzati da una feroce polemica: fin dai primi Padri della Chiesa abbiamo delle pagine durissime verso il popolo ebraico. Sostanzialmente la vera svolta si è avuta solo con il Concilio Vaticano II dove venne tolta l’accusa classica rivolta agli ebrei, quella di essere il “popolo deicida”; inoltre il Concilio affermò che questo popolo continuava ad essere il popolo eletto (Dio non ha revocato quanto stabilito). Il Papa Karol Wojtyla o Giovanni Paolo II è arrivato nel 1986 a chiamare gli ebrei, nella sua visita alla sinagoga di Roma, i nostri fratelli maggiori. Avvicinamento e riscoperta anche da parte degli ebrei dell’ebraicità di Gesù.
 
Concretamente il processo di ricostruzione del giudaismo si realizza in questo modo:
distrutta Gerusalemme, un rabbino, Yohanan ben Zakkai, chiede il permesso ai romani di fondare una scuola per l’insegnamento della Toràh e l’ottiene. Ad un certo punto questa scuola si sposta a Iabne (o Iannia) dove continua lo studio e l’insegnamento e dove alla fine del sec. I (90 e.v.) si terrà un concilio molto importante di rabbini, nel quale vengono prese alcune importanti decisioni, tra le quali la definizione del canone ebraico (quali libri erano considerati parola di Dio) si aprono ampie discussioni, ad esempio, sui libri del Cantico dei Cantici o di Qohelet, sui quali vi sono dubbi.
Vengono comunque stabiliti dei criteri precisi per l’inserimento di testi nel canone ebraico, ad esempio, vennero esclusi quelli che non erano scritti in ebraico come il “Libro della Sapienza”.
In Egitto vi era una nutrita comunità di ebrei che parlavano greco e nel III secolo a.e.v. viene fatta la traduzione dei LXX che invece contiene la Sapienza. Inoltre, fu stabilito il testo consonantico della Bibbia ebraica che fino a quel momento era fluttuante, fu stabilita la recensione che diventerà autoritativa e continuerà per tutto il Medioevo sino ad arrivare ai nostri giorni. Dato che già nel 90 e.v. siamo in una fase di polemica tra cristiani ed ebrei, non è escluso che nel fare questa operazione di fissazione del testo consonantico ebraico i rabbini abbiano anche agito privilegiando il testo ebraico, che diventerà poi il Testo masoretico, rispetto ad altri. In questo concilio, tra l’altro, fu rinnegata la traduzione dei LXX perché scritta in greco e non in ebraico, pur essendo un testo basato su codici ebraici antichi dai quali i traduttori della Settanta si basarono nella loro versione in greco.
 
(testo di Mauro Perani)