Caratteristiche del giudaismo rabbinico - 1
- Sostanzialmente questo giudaismo vede in sé il superamento del concetto di sacerdozio e di casta sacerdotale. La figura del sacerdote, infatti, era un concetto strettamente legato alla funzione del culto che veniva praticato dai Kohanim o sacerdoti nel Tempio (concetto superato con la caduta del medesimo).
- 2) Questo giudaismo è fondato su una coscienza radicalmente laica. Anche il rabbino è un laico, egli non ha particolari incarichi, non ha nessuna forma di sacralità in quanto persona. Il suo essere maestro gli deriva dall’aver studiato, approfondito la Toràh e l’applicazione dei suoi precetti, nell’essere in grado di insegnarli e di guidare la comunità nella preghiera e il sabato leggere il brano di Torah della settimana o parashàh (cosa che possono fare anche altri). Il rabbino è sposato, infatti nell’ebraismo non esiste assolutamente il concetto di verginità consacrata a Dio (che è tipicamente cristiano) e di celibato. Il non sposarsi è una vergogna, in continuità con la linea dell’Antico Testamento: il matrimonio è uno dei primi comandamenti della Toràh.
- Agli ebrei rimasti dopo la distruzione del tempio si pone il problema di riorganizzare la vita religiosa, reinventando un nuovo modello con delle categorie nuove e avendo solo il libro sacro, la Toràh che assume una centralità assoluta. La parola Toràh designa quello che noi chiamiamo Pentateuco, i primi cinque libri della Bibbia che per la tradizione classica e ortodossa hanno come autore Mosè, anche se noi sappiamo che, se molti principi, valori e norme risalgono a lui, non può esserne l’autore nel Quarto o Terzo secolo a.e.v. quando è fissata la Toràh. Toràh è una parola ebraica che viene resa con “legge”, traduzione che ne falsa il significato più autentico perché il termine ebraico Toràh deriva dalla radice yarà che significa “indicare con il dito” e quindi anche “insegnare”. Una traduzione più fedele di Toràh è dunque “insegnamento” più che “legge” anche se in testi come il levitico e il Deuteronomio sono pieni di norme e leggi. La traduzione di Toràh con Legge che noi siamo abituati a fare avviene sulla scorta della traduzione greca della Bibbia dei LXX che ha reso Toràh col greco nomos “norma, legge” a cui è seguita la traduzione latina lex. Mentre per noi cristiani all’interno della Bibbia cristiana, che ha anche il Nuovo Testamento, in quanto parola di Dio, tutti i libri hanno lo stesso valore da Genesi all’Apocalisse di Giovanni, per gli ebrei la Toràh ha un valore maggiore, ha un primato assoluto e gli scritti che compongono gli altri due blocchi (Profeti e Scritti), costituiscono in qualche modo un approfondimento, un’integrazione, un commento della Toràh. La Toràh, dunque, ha un ruolo principale, l’intera religione ebraica si basa sul regolare il comportamento dell’uomo in conformità o meno ai precetti della Toràh dati da Dio, questa è la via della santificazione. Si tenga presente che le pagine della Bibbia ebraica, sostanzialmente equivalente all’Antico Testamento dei cristiani, (che tuttavia contiene alcuni libri in più detti deuterocanonici), quantitativamente in una Bibbia cristiana è il triplo di pagine rispetto a quelle del Nuovo Testamento, che ne conta un terzo.
Potremmo dire che nell’ebraismo c’è un primato dell’orto-prassi sull’ortodossia.
- Ortodossia significa retta credenza, un credo giusto (il contrario è eterodossia cioè deviare da certi contenuti del credo e cadere in eresia e deviazioni dottrinali).
- Orto-prassi invece vuol dire retto comportamento, dove la tensione e la preoccupazione è rivolta più alle cose giuste dei precetti da fare che sulle cose giuste da credere.
- Un’altra struttura portante e fondamentale della religione ebraica è il commento, l’esegesi della scrittura, da cui sono nati i testi letterari fondamentali dell’ebraismo rabbinico: la Mishnàh e il Talmud. Si potrebbe quindi usare l’espressione che definisce l’ebraismo come la “Civiltà del Commento”. Si potrebbe dire che l’ebraismo si è costruito come commento della Toràh e della Bibbia ebraica. Sostanzialmente gran parte dela letteratura religiosa dell’ebraismo è commento: La ricerca dei testi sacri si chiama Midrash, ossia indagine, ricerca.
- se il Midrash ha lo scopo di ricavarne dei precetti si chiama Midrash halakah.
- se invece il Midrash ha lo scopo di ricavare esortazioni e consolazione, e narrazioni edificanti, si chiama Midrash haggadah, o commento omiletico.
- Un’altra caratteristica dell’ebraismo è il suo essere fortemente ancorato all’al di qua, ossia al come vivere questa vita in conformità ai precetti e comandamenti di Dio.
A questo proposito occorre dire che fino agli ultimi due secoli prima dell’era volgare, l’Ebraismo non aveva la fede in una vita oltre la morte, idea che fa capolino in seguito, ma ancora nel I secolo e.v. i Sadducei non credevano nella resurrezione. Successivamente, l’aldilà fu accettato unanimemente, pur restando assai vaporosa e misteriosa la sua descrizione. Nella religione ebraica manca la distinzione fra “natura” e “soprannatura”, esiste solo l’uomo concreto così com’è e il suo rapporto con Dio attraverso l’osservanza dei precetti. Nell’ebraismo c’è poi un’assoluta mancanza di dualismo fra sfera materiale e spirituale, che diviene in campo antropologico l’assenza del dualismo tra anima e corpo. Per la Bibbia l’uomo costituisce una profonda unità, quindi nella Bibbia ebraica e nell’Antico Testamento non c’è un deprezzamento né dell’anima né del corpo, e non c’è nulla che abbia a che fare con una visione pessimistica della sessualità. Tutta la corporeità va stimata ed apprezzata quanto la spiritualità. Tale dualismo si è invece insinuato nel cristianesimo, soprattutto dei primi secoli, dietro l’influsso delle categorie filosofico-teologiche greche. Secondo Platone l’uomo è spezzato in due, anima e corpo: l’anima per punizione è stata costretta ad incarnarsi in un corpo che è come una prigione ed essa è l’elemento nobile che può riscattare l’uomo attraverso la conoscenza (gnosi). In questa concezione l’uomo è spaccato nettamente in due in questa dicotomia tra elemento spirituale e corporale.
(testo di Mauro Perani)