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Concetti essenziali del giudaismo rabbinico

 

La duplice Toràh

Secondo la tradizione rabbinica più antica, come si è cristallizzata nella Mishnàh trattato “Pirche Avot” o “Massime dei padri”, si afferma che la Toràh è stata data a Mosè sul Sinai e attraverso di lui, mediante una catena ininterrotta di tradizione arriva fino al periodo dei maestri del periodo rabbinico. Il passo della Mishnàh, Pirche Avot capitolo 1,1 dice:
“Mosè ricevette la Toràh sul Sinai e la trasmise a Giosuè. Giosuè agli anziani e gli anziani ai profeti. I profeti la trasmisero agli uomini della grande assemblea ed essi dissero tre cose: ponderate bene quando giudicate, fate molti discepoli, costruite una siepe attorno alla Toràh”.
Sostanzialmente, questa è la descrizione della catena della tradizione della Toràh, che quindi ritiene di ricollegarsi direttamente a Dio passando attraverso i rabbini, i profeti, gli anziani, Giosuè, Mosè, che l’ha ricevuta direttamente da Dio. La Toràh, che Mosè ricevette da Dio, secondo la concezione rabbinica, non è solo la Toràh scritta, perché Dio diede a Mosè, assieme alla Toràh scritta, anche una Toràh orale, consistente in una serie di interpretazioni e di spiegazioni della Toràh scritta. Possiamo dunque dire che il giudaismo rabbinico, continuazione della tendenza farisaica, è quello che si è imposto e resta valido fino ai nostri giorni, ossia è il giudaismo della duplice Toràh o delle due “Toròt”: quella scritta e quella orale, che non sono due cose diverse, ma si integrano a vicenda. Occorre precisare che la Toràh scritta non ha assolutamente un valore superiore a quella orale, ma sono tutte e due derivate da Dio e quindi sante e della stessa importanza.
 
Anche per la dottrina Cattolica i due canali fondamentali della Rivelazione sono: la Scrittura e la Tradizione, che si illuminano a vicenda ma, contrariamente all’ebraismo, il primato è della Scrittura, che è norma normante superiore alla Tradizione, che invece è una norma normata, anche se la Scrittura e Tradizione si illuminano a vicenda. Nella concezione ebraico-rabbinica il valore della Tradizione orale è più grande di quello che non sia la Tradizione nel cattolicesimo, perché è concepita come una vera e propria catena di tradizione di una Toràh orale, che assieme a quella scritta fu data da Dio a Mosè sul Sinai. L’unica differenza è che una fu data scritta e l’altra invece orale, quest’ultima tramandata da Dio di bocca in bocca, dai padri, fino ai rabbini, che ritennero nei secoli successivi, di metterla per iscritto, rispettivamente con la redazione del Talmud palestinese, che però fu interrotta bruscamente nel secolo Ve.v. per gravi persecuzioni, e del Talmud Babilonese, la cui redazione, che comprende quasi tutti i trattati della Mishnàh, fu terminata nel secolo VII e quindi venne consacrato come il Talmud per eccellenza. È scritto nel Talmud babilonese (trattato sul Sabato):
“Quante Toròt abbiamo noi?” Chiede un ebreo al maestro, il quale rispose: “Due: La Toràh scritta (letteralmente: la Toràh che è sul Libro) e la Toràh orale (letteralmente: la Toràh che è sulla bocca), cioè: tramandata da discepolo a discepolo, da maestro a maestro, fino a risalire a Mosè, a cui fu data da Dio”.
Evidentemente, la dottrina delle due Toròt è una dottrina specificatamente rabbinica, che nasce più o meno nel periodo di Gesù e immediatamente successivo nel periodo formativo dell’ebraismo; probabilmente si tratta di una dottrina il cui scopo è di attribuire un valore normativo assoluto, non solo alla Bibbia e alla Toràh scritta, ma anche alla Tradizione orale. È probabile che Gesù non fosse d’accordo su una concezione simile, poiché, spesso, si mostra critico verso ciò che Egli definisce “le tradizioni degli uomini”, lamentandosi per il fatto che, a causa di tali tradizioni, sia stato soffocato il cuore e il senso profondo di Dio, in nome di un tradizionalismo; in un passo di del Vangelo di Matteo 15,6 e 8-9, dice Gesù ai farisei: Così avete annullato la parola di Dio a motivo della vostra tradizione, e aggiunge:
“Bene ha profetato di voi Isaia: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto insegnando dottrine che sono precetti di uomini”.
Ovviamente, in quel periodo il fiume unico dell’ebraismo, si stava dividendo nei due fiumi di ebraismo e cristianesimo, ed entrambi hanno costruito la loro identità in polemica l’uno contro l’altro. Per questo di fatto dobbiamo relativizzare sia l’antiebraismo cristiano sia l’anti cristianesimo degli ebrei. Occorre rispettare le due posizioni, se non si vuole cadere in una lotta di religione.

 

Il movimento Caraita, interno all’ebraismo e fiorito nei secoli VII-VIII, ha invece rigettato completamente il concetto di una Toràh orale, rigettando il Talmud e tutte le interpretazioni del rabbinismo, per riaffermare l’assoluto ed esclusivo valore della Toràh scritta. Ciononostante la concezione delle due Toròt si è poi diffusa divenendo uno dei due pilastri che reggono il giudaismo rabbinico, accettato fino ad oggi, ed è importante tenerla presente. Spiega uno studioso riguardo al passo delle due Toròt:
“Il punto importante della risposta data è che anche la Tradizione orale è Toràh. La replica, poi, non contiene la benché minima indicazione che le due Toròt sarebbero valutate in maniera diversa; la Tradizione dei padri è Toràh. Il carattere distintivo della Toràh orale sta nel fatto che essa non fu messa per iscritto; eppure, anch’essa è, come la Toràh scritta, non una legge di natura, non un frutto di riflessioni umane, ma Legge data da Dio”. (E.E. Urbach).
Di fronte a questo concetto forte, si può capire il valore grandissimo che gli ebrei del passato e del presente attribuiscono alla Tradizione interpretativa orale dei rabbi, che si è fossilizzata nei testi classici della Mishnàh e del Talmùd babilonese in particolare con il titolo di Toràh orale, che ha lo stesso valore di quella scritta, solo cambia nella forma, perché non fu data scritta. Si tratta comunque della seconda Toràh. Tutta l’energia e la tensione spirituale del giudaismo rabbinico, fino ad oggi, è nel commento della Bibbia e della Toràh nella sua duplice forma: scritta e orale. Nel Talmud si legge:
“il Santo, Unico, benedetto Egli sia, ha gratificato Israele di tre doni preziosi; e tutti e tre glieli ha conferiti attraverso la sofferenza. Essi sono la Toràh, la terra di Israele e il mondo futuro”.
In pratica questo concetto sviluppa la tematica secondo cui Dio ha moltiplicato questi doni fatti a Israele, perché lo ama. Tuttavia, essendo Israele spesso infedele ai precetti, Dio ha punito il suo popolo con la sofferenza, e la Terra dei padri a causa dei suoi peccati gli è stata tolta. Il testo midrascico “Esodo Rabbà” propone anche un’altra spiegazione delle sofferenze del popolo di Dio quando, commentando il v. 1,1, dice:
“È perché Dio ama Israele, che ha moltiplicato le sue sofferenze”.
In questo senso possiamo collegarci ai “Canti del Servo” di Isaia (Isaia 42-53). Questi sono stati interpretati unanimemente dall’esegesi ebraica come applicati a Israele stesso, cioè il servo sofferente, non è come per l’esegesi cristiana Gesù-Messia, ma è lo stesso Israele che si carica delle colpe del mondo. Secondo la Tradizione ebraica, all’inizio della creazione Dio offrì la Toràh a tutte le genti create, ma nessuno di questi popoli, a cui Dio si rivolse offrendo la Toràh, la accettò. Soltanto Israele ha assunto ed accolto sopra di sè il giogo, dolce e soave, della Toràh. Nel midràsh a Numeri Rabbà si legge:
“Perché il Santo, Egli sia benedetto, ha scelto Israele? Perché tutti i popoli ripudiano la Toràh e rifiutano di riceverla, mentre Israele accettò e scelse il Santo, Unico, Egli sia benedetto, e la Sua Toràh”.
Vi è qui, questo concetto fondamentale, secondo cui Israele ha accettato, ha accolto la Toràh, che era stata rifiutata dagli altri popoli. Grazie all’accettazione della Toràh, Israele realizza, in qualche modo, il piano di Dio per la salvezza di tutto il mondo; poiché se non ci fosse stato nessuno popolo che avesse accettato la Toràh, il mondo sarebbe precipitato nel caos primordiale. Perciò è solo grazie all’accoglimento della Toràh da parte di Israele, che il mondo, tutto il mondo, viene salvato; mediante questa accettazione della Toràh si compie il piano salvifico di Dio per tutto il mondo.Dal Levitico rabbàh (23,3):
“Dopo il diluvio, il Santo, Egli sia benedetto, ispezionò il suo universo per vedere che cosa fosse successo. Lo trovò invaso dalle acque, che erano servite a far perire le generazioni perverse. Incaricò allora i demolitori di distruggere il mondo, ma distinse una rosa, che si chiama Israele. La prese, ne respirò il profumo nel momento in cui dava ad essa il decalogo e ne fu preso. Quando Israele gridò: ‘Faremo e ascolteremo tutto ciò che il Signore ha detto’, il Santo, Egli sia benedetto, dichiarò: ‘a causa di questa rosa il giardino sarà risparmiato e per il merito della Toràh e di Israele, il mondo sarà salvato’.
È questa una tipica elaborazione midrashica, che immagina la scena dopo il diluvio ed è in qualche modo fantastica, però pregnante di una teologia profonda. Possiamo dire che questa elezione di Israele, secondo il testo midrashico che abbiamo letto, dipende dal fatto che ha accolto, ha accettato la Toràh e il suo giogo. Dunque, nell’osservanza della Toràh sta la missione di Israele presso tutte le nazioni. In questa teologia dell’elezione e dell’accoglimento della Toràh da parte di Israele vi è un respiro universalistico. È un elemento molto bello, anche se non sempre è così chiaro. A volte questa tensione universalistica, nella storia dell’ebraismo, subisce delle crisi, che ricadono in una visione più gretta, più chiusa; quasi di un esclusivismo religioso, che contrappone Israele a tutti gli altri popoli pagani. Vi sono, perciò, queste due polarità, ma direi, che anche sulla linea della riflessione profetica, mi pare che sia più autentico il primo polo di riflessione: l’apertura ad una grande missione universalistica di Israele per la salvezza di tutta l’umanità.
 
(testo di Mauro Perani)