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Dalla tradizione orale alla tradizione scritta

 

Il testo che segue, tratto dal volume di Luciana Pepi, Una sapienza straniera. Filosofia ed ebraismo nel medioevo, si concentra nel descrivere il rapporto tra tradizione orale e tradizione scritta nell'ebraismo.

 

La Torah scritta, proprio per la sua complessità, per essere compresa ha bisogno del commentario, dello studio, così nasce, accanto alla Torah scritta, la Torah orale: spiegazione ed ampliamento del testo scritto. «Legge scritta-legge orale appaiono come due forme diverse della stessa rivelazione: la “parola” esige una vigilanza costante, altrimenti si dimentica, si altera, scompare. Attraverso lo studio quotidiano, l’ebreo ha garantito questa custodia».1Sinagoga Rodi_Foto Francesco Bonanno
La Torah orale (in ebraico Torah she be’al pe’ che letteralmente significa “la Torah che è sulla bocca”) è l’interpretazione, l’insieme dei commenti dei rabbini alla Torah scritta, ed è in parte contenuta in alcuni testi confluiti successivamente in quella monumentale raccolta della tradizione ebraica che è il Talmud. La Torah scritta è il primo anello di una catena che grazie alla tradizione orale continua sempre ad allungarsi perché si accresce con l’apporto di nuove interpretazioni. La Torah orale, come tutte le tradizioni che prendono vita da una rivelazione divina, nacque per custodire, tramandare ed applicare lungo il corso dei secoli, la Torah scritta. La Torah orale non affianca più semplicemente quella scritta, ma si sforza di coglierla e dedurla tra le righe della Scrittura stessa. Un modo per far sì che la Torah continui ad essere una realtà viva e attuale è quello di metterla in pratica, un altro è quello di continuare sempre ad ascoltarla, studiarla ed interpretarla. Compito della Torah orale è, infatti, anche spiegare ed esplicitare come attuare gli insegnamenti contenuti in quella scritta, che, spesso, sono espressi in modo estremamente conciso.  La Torah per rimanere viva e per essere adattata alle sempre nuove esigenze di chi la legge, ha bisogno di nuove e diverse esegesi; essa non esaurisce mai le sue infinite potenzialità. In un versetto del libro di Geremia (23,29) la parola di Dio viene paragonata al martello che, percuotendo la roccia, ne fa scaturire scintille senza sosta: l’interpretazione tradizionale vede in queste scintille le varie interpretazioni della Torah, e sostiene che nessuna interpretazione è l’ultima e definitiva, ma al contrario sarà sempre superata da un’altra. Lo spirito rabbinico è caratterizzato dalla ricerca di pluralità di opinioni, di molteplicità di letture, anche per questo l’ebraismo è definito “civiltà del commento”.2 I Maestri sottolineano che la Torah parla in modo sempre nuovo ad ogni diversa generazione e secondo l’interpretazione rabbinica questa idea è espressa chiaramente, ad esempio, nel versetto 1 di Esodo 19: «Nel terzo mese dall’uscita dei figli di Israele dalla terra d’Egitto, in questo giorno arrivarono al deserto del Sinai». Perché è scritto “in questo giorno” e non “in quel giorno”? la risposta è che il giorno in cui è stata donata la Torah è un eterno “oggi”. Fondamentale è dunque la trasmissione della Torah di generazione in generazione, trasmissione che necessita di nuove “riletture”. Questo continuo aggiornamento ed accrescimento non è semplice e a volte crea alcune difficoltà. Un noto Midrash del Talmud (Menakot 29 b) racconta che:
 
 
 

 

Un giorno Mosè salì sul monte Sinai e trovò l’Eterno intento ad ornare le varie lettere della Torah con delle coroncine. Gli chiese che senso avesse quello che stava facendo, e Dio spiegò che un giorno un uomo chiamato Akivà avrebbe arricchito quelle lettere con tanti nuovi commenti. Allora Mosè chiese di conoscere questa persona, e il Santo, benedetto sia, gli concesse di entrare nella scuola di Akivà. Ma per quanto si sforzasse, Mosè, sempre più preoccupato, non riusciva a capire nulla di quello che il famoso rabbino stava insegnando. Finchè ad un certo punto gli allievi chiesero al maestro da dove deduceva le sue argomentazioni. Dall’ insegnamento ricevuto da Mosè sul Sinai, rispose Akivà. E Mosè, rassicurato sulla continuità della tradizione, tornò serenamente presso l’Eterno.3

 
Nella Torah vi sono molti punti oscuri, del tutto incomprensibili senza il riferimento ad una tradizione orale esegetica parallela. Scrive Gabriel Levi: «[…] non si tratta solo di un dato storico, ma anche di una posizione di pensiero. Nella tradizione ebraica il testo è sostanzialmente un pre-testo, il commento al testo è molto più importante del testo […] con il termine Torah orale si intende quella Torah che non si può scrivere».4
Sia la Torah che il Talmud hanno bisogno del continuo studio, dell’incessante commento. Osserva Elena Loewenthal:

 

La Torah divenne l’eredità da trasmettere ai propri figli, di generazione in generazione, il centro attorno al quale far ruotare la propria vita. Ma come si fa a vivere intorno, sopra a un libro, per quanto sacro? La risposta è più facile di quanto non possiate immaginare […] con lo studio, la ripetizione. Questo è la tradizione ebraica […] un vasto insieme di testi che sono parole a fianco della Torah, della Bibbia. Sono ricerca e commento, esplorazione dei passi, delle parole, delle lettere che compongono il testo, ma anche e soprattutto degli spazi bianchi compresi tra le righe, i versetti, i tratti di inchiostro […] nulla meglio delle parole racconta la tradizione ebraica.5

 

Come accennato, la tradizione orale, la Torah she be’al pe, confluì in parte in alcuni testi: Mishnah, Ghemarà, Talmud. Il processo che portò dalla oralità alla scrittura fu molto complesso, con molte opposizioni interne al mondo ebraico e diatribe tra i maestri delle varie scuole. Nell’ottica di alcuni rabbini solo la forma orale mantiene la dialetticità e complessità del pensiero, rimane fluida, viva, non statica, mentre lo scritto fissa, cristallizza e immobilizza. Inoltre, da un punto di vista pedagogico, mentre nella forma orale è il maestro che decide quando e a chi trasmettere un determinato insegnamento, il libro scritto giunge nelle mani di tutti e può arrivare alla persona sbagliata, che non è in grado di comprendere, o al momento non opportuno, quando mancano delle conoscenze preliminari che rendano possibile la corretta comprensione.6 Alla fine, comunque, prevalse la decisione di mettere per iscritto parte della tradizione orale. La motivazione principale del passaggio dalla forma orale a quella scritta fu il timore che tale immenso patrimonio di sapere andasse perduto.7 Si cercò, quanto più possibile, di mantenere anche nello scritto la vivacità, la fluidità, dialetticità e complessità della forma orale. Per questo motivo tali testi presentano una struttura particolare, volutamente priva di sistematicità e ordine, una forma che cerca di rimanere fedele e vicina alla fluidità del pensiero non ancora fissato nelle parole (scritte) e tenta anche di riportare le caratteristiche proprie delle discussioni orali, piene di interruzioni, infinite parentesi, digressioni, approfondimenti e svariati riferimenti. Sempre per questa ragione in questi testi sono riportati molti dialoghi e discussioni tra più personaggi. Anche visivamente le pagine si presentano con una particolare struttura: al centro il testo, tutto intorno, sopra e sotto il testo, un’infinità di commenti, fitte e numerose note poste sia a margine, che sopra e sotto la parte centrale del testo. Vedere una pagina di queste opere è illuminante e rende l’idea molto più di ogni descrizione. Alcuni studiosi osservano che la struttura delle pagine talmudiche ricorda quella dei moderni computer, dove in una stessa pagina è possibile aprire diverse finestre contemporaneamente, con riferimenti e collegamenti ipertestuali che coesistono in un unico spazio. Roberto Della Rocca osserva che nella tradizione ebraica anche la scrittura non è fissità, è invece convivenza e confronto delle contraddizioni, ed è punto di partenza e stimolo per una ricerca di nuovi significati.8
Il primo testo redatto fu la Mishnah.

 

Note

1 H. Puech, Storia dell’ebraismo, Laterza, Bari 1990, p. 187.

2 A. Cagiati, Settanta domande sull'ebraismo, cit., p. 16.

3 Ivi, p. 14.

4 G. Levi, «Il Talmud», in Torah e filosofia, cit., p. 28.

5 E. Lowenthal, L’ebraismo spiegato ai miei figli, cit., p.74.

6 Si veda Introduzione a M. Maimonide, La Guida dei perplessi, a cura di M. Zonta, Utet, Torino 2003, p. 73.

7 Anche in questo caso è molto importante tener presente quanto fu determinante il dato storico della diaspora, il fatto che gli ebrei fossero da secoli dispersi per il mondo, senza un’unità territoriale e linguistica, rendeva molto più difficile mantenere e preservare la loro atavica sapienza.

8 R. Della Rocca, Con lo sguardo alla luna. Percorsi di pensiero ebraico, Giuntina, Firenze 2015, p. 33.

 


Approfondimenti

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