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Epica persiana e opera lirica italiana: la “Turandot” da Nizami a Puccini

 

Khusraw scopre Shirin mentre fa il bagno in una piscina
 

 

J.C. Buergel nel saggio letto in occasione della presentazione della raccolta di scritti “Il discorso è nave, il significato un mare“. Saggi sull'amore e il viaggio nella poesia persiana medievale, ripercorre le vicende del poema risalente al dodicesimo secolo Haft Peykar (“Le sette effigi” o “Le sette principesse”, nella versione italiana di Alessandro Bausani), opera di uno dei più grandi poeti persiani, Ilyas ibn Yusuf Nizami (1141-1209), che ispirò Puccini nella stesura della sua “Turandot” attraverso le interpolazioni di Pétis de la Croix, l’autore dei “Mille e un giorno” e degli omonimi drammi di Gozzi e Schiller, che si rifanno alla fiaba persiana senza tuttavia mai citarla.

 

Il titolo dice precisamente: “La storia della principessa che si rinchiuse in una fortezza” (Hikâyat-i dukhtar-i pâdschâh keh dar qal`e hisârî shud) . Dunque in una città della Russia (naturalmente una Russia che corrisponde solo in parte a quella odierna) signoreggiava un re buono che aveva una figlia che egli aveva amorevolmente allevata (si noti, entrambi restano innominati in Nizami). Ella non era soltanto di abbagliante bellezza, era pure stata ben educata e istruita alla lettura, ovvero, leggo qui dalla bella e precisa traduzione di Bausani 
Ma oltre la bellezza e il dolce sorriso aveva appreso cognizioni d’ ogni genere, aveva vergato carte d’ogni ramo della scienza, aveva letto tutti i libri d’incanto del mondo, le malìe e le cose occulte (p. 148)
Turandot (la chiameremo per nome per semplificare le cose, benché –come s’è detto- il nome manchi in Nizami) di queste conoscenze farà uso prestissimo.

 

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