Il Mali, travolto da un gran numero di problemi, rappresenta comunque un’avanguardia politica africana e per certi versi, con tutte le dovute considerazioni, un modello interessante di autodeterminazione e di affrancamento definitivo dalle potenze coloniali. A settembre 2020, al culmine di una fallimentare campagna di contenimento del jihadismo guidata dalla Francia fin dal 2013 in Mali e poi allargata nell’agosto a tutta l’area saheliana per volere del presidente François Hollande (l’operazione Barkhane), un gruppo di ufficiali maliani, insofferente verso Parigi, prese il potere a Bamako. La giunta, installatasi nei giorni successivi, ebbe breve vita perché il vicepresidente nominato, Assimi Goita, non contento dei cambiamenti innescati dall’esecutivo provvisorio, scalzò il presidente Bah Ndaw e si prese tutto il potere nel maggio successivo.
Il numero di effettivi jihadisti e delle loro incursioni nel territorio maliano nonostante i circa 5.500 ‘boots on the ground’ francesi, erano aumentati, la sicurezza dei cittadini era sempre più minacciata e il sentimento contro l’ex occupante coloniale, accusato di spendere soldi ed essersi impossessato di caserme e comandi militari senza portare alcun risultato, cresceva di giorno in giorno. L’approdo al potere dei militari, quindi, fu salutato da un consenso pressoché unanime dalla popolazione che, fino a oggi, sembra sostenere in massa la svolta autocratica.