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Appamāda: la serietà della non distrazione

 

Il numero 18 della rivista online Spazio Filosofico contiene un contributo di Antonella Serena Comba intitolato «Appamāda: la serietà della non distrazione» grazie al quale è possibile approfondire alcuni concetti fondamentali del pensiero buddhista, con riferimento alla tradizione Theravāda.

 

La prima parola che viene in mente parlando di “serietà” nel buddhismo antico è il termine pālico “garu” (sanscrito “guru”), che corrisponde al latino “gravis” e pertanto anche all’italiano “grave, serio”. Nel Canone buddhista in lingua pāli non è presente il sostantivo astratto “garuttā” o “garutā” che potrebbe tradurre “serietà”, ma la parola “garu” come sostantivo o aggettivo è frequente e ha una valenza sia negativa sia positiva, esattamente come nella cultura vedica e brahmanica che fa da sfondo alla predicazione del Buddha. In senso negativo, è garu ciò che pesa, come un cibo indigesto nello stomaco; in particolare è garu una seria trasgressione della regola monastica. Anche le otto norme imposte dal Buddha alla prima monaca, sua zia e madre adottiva Mahāpajāpati Gotamī, prendono il nome di “garu-dhamma”, “regole pesanti/importanti” (la parola “dhamma” ha molti significati, fra cui “fenomeno, regola, elemento, dottrina, verità, realtà”). Questi garu-dhamma comportano un accentuato omaggio formale alla comunità monastica maschile da parte delle monache.

 

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