Santa Sede e Israele
Il kit Santa Sede e Israele è stato realizzato grazie al contributo di Angela Cimino, dottoranda presso l’Istituto Storico Germanico di Roma impegnata all'interno del gruppo di ricerca transnazionale, The Global Pontificate of Pius XII. Catholicism in a Divided World, 1945-1958, e nell’equipe di ricerca di Fscire. Il kit ripercorre i rapporti tra Vaticano e Israele a partire dal 1948, con una particolare attenzione al punto di vista della Santa Sede, rappresentato tramite documenti e video che chiariscono l’evoluzione del rapporto tra i due Stati.
Introduzione
I rapporti diplomatici tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele sono stati istituiti ufficialmente negli anni ’90 del XX secolo.
Ricostruire le varie fasi che hanno caratterizzato le relazioni tra i due Stati consente non solo di comprendere alcuni aspetti della politica mediorientale del Vaticano, ma anche di collocare tali relazioni nel contesto più ampio del dialogo ebraico-cattolico.
Il 14 febbraio 1947, il Governo britannico annuncia la propria decisione di porre fine al Mandato sulla Palestina, con il ritiro delle truppe previsto per il 15 maggio 1948, e di affidare la soluzione delle problematiche di tale regione alle Nazioni Unite.
In seguito, il 29 novembre 1947, le Nazioni Unite approvano la Risoluzione 181 (II), meglio conosciuta come Piano di partizione, che stabilisce la divisione della Palestina in due Stati, uno arabo e uno ebraico, e l’internazionalizzazione della città di Gerusalemme, dopo due mesi dal ritiro delle truppe britanniche e non oltre il 1° ottobre 1948.
David Ben Gurion e Chaim Weizmann, le due personalità più importanti del movimento sionista in quel periodo, decidono di agire strategicamente proclamando la fondazione dello Stato d’Israele, il 14 maggio 1948, prima del ritiro delle truppe britanniche dalla Palestina.
La Dichiarazione che sancisce la fondazione dello Stato viene letta da David Ben Gurion nel Museo di Tel Aviv al di sotto del ritratto del fondatore del sionismo, Theodor Herzl.
La fondazione dello Stato d’Israele contribuisce ad intensificare le tensioni presenti nella regione e, in seguito ad essa, ha inizio il conflitto israelo-palestinese.
Dichiarazione d’Indipendenza dello Stato d’Israele – 14 maggio 1948:
In ERETZ ISRAEL è nato il popolo ebraico, qui si è formata la sua identità spirituale, religiosa e politica, qui ha vissuto una vita indipendente, qui ha creato valori culturali con portata nazionale e universale e ha dato al mondo l'eterno Libro dei Libri.
Dopo essere stato forzatamente esiliato dalla sua terra, il popolo le rimase fedele attraverso tutte le dispersioni e non cessò mai di pregare e di sperare nel ritorno alla sua terra e nel ripristino in essa della libertà politica.
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La Santa Sede non riconosce diplomaticamente lo Stato d’Israele fino al 1993, quando è stato firmato l’Accordo fondamentale, e nel 1994 sono state istituite le relazioni diplomatiche tra i due Stati.
“Quello del riconoscimento dello Stato d’Israele è il grande fatto al cuore dei rapporti tra ebraismo e cattolicesimo lungo tutto il Novecento. Il problema ha radici complesse, religiose e politiche, in un intreccio unico rispetto ad altri mondi confessionali”.
(A. Riccardi, Le politiche della chiesa, Cinisello Balsano, San Paolo, 1997, p. 123)
Le preoccupazioni della Santa Sede
Dal 1948 in poi, Pio XII fa riferimento agli avvenimenti verificatesi nella regione palestinese in tre encicliche: Auspicia quedam, del 1° maggio 1948, In Multiplicibus Curis, del 24 ottobre 1948, e Redemptoris Nostri, del 15 aprile 1949.
Nella prima enciclica il pontefice si limita ad auspicare la pace nella regione, mentre, nelle altre due, esprime esplicitamente la richiesta d’internazionalizzare la città di Gerusalemme. Difatti, nei primi anni che seguono la fondazione dello Stato d’Israele, la questione dell’internazionalizzazione della città di Gerusalemme rappresenta uno dei principali punti di attrito nelle relazioni tra Santa Sede e Stato d’Israele.
Auspicia quedam - 1° maggio 1948
Alcuni indizi sembrano oggi chiaramente dimostrare che tutta la grande comunità dei popoli, dopo tanti eccidi e devastazioni causati dalla lunga e terribile guerra, è ardentemente orientata verso i salutari sentieri della pace; e che al presente si dà più volentieri ascolto a coloro che si dedicano con faticoso lavoro a opere di ricostruzione, che cercano di sedare e comporre le discordie, e si accingono a far risorgere da tante rovine che ci affliggono un nuovo ordine di prosperità, anziché a coloro che eccitano odi e rancori, dai quali non possono derivare se non nuovi e più gravi danni.Ma, quantunque Noi stessi e il popolo cristiano abbiamo non lievi motivi di consolazione e possiamo confortarci con la speranza di tempi migliori, non mancano tuttavia fatti e avvenimenti, che recano grande preoccupazione e angustia al Nostro animo paterno. Infatti, benché la guerra sia cessata quasi dovunque, tuttavia la desiderata pace non ha ancora rasserenato le menti e i cuori; anzi si vede tuttora il cielo oscurarsi di nubi minacciose.
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In Multiplicibus Curis - 24 ottobre 1948
Tra le molteplici preoccupazioni che Ci assillano in questo periodo di tempo tanto pieno di conseguenze decisive per la vita della grande famiglia umana e che Ci fanno sentire così grave il peso del supremo pontificato, occupa un posto particolare quella che Ci è causata dalla guerra che sconvolge la Palestina. In piena verità possiamo dirvi, venerabili fratelli, che né lieta né triste vicenda riesce ad attenuare il dolore mantenuto vivo nel Nostro animo dal pensiero che sulla terra su cui il Signore nostro Gesù Cristo versò il suo sangue per apportare a tutta quanta l'umanità la redenzione e la salvezza, continua a scorrere il sangue degli uomini; che sotto i cieli nei quali echeggiò nella fatidica notte l'evangelico annunzio di pace si continua a combattere, si accresce la miseria dei miseri e il terrore degli atterriti, mentre migliaia di profughi, smarriti e incalzati, vagano lontano dalla patria in cerca di un ricovero e di un pane.
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Redemptoris Nostri - 15 aprile 1949
La passione del nostro divin Redentore, che nei giorni di questa settimana santa si ripresenta come in una viva scena al nostro sguardo, richiama con intensa commozione la mente dei cristiani a quella terra che, prescelta per divino consiglio a essere la patria terrena del Verbo incarnato, e testimone della sua vita e della sua morte, fu bagnata del suo sangue preziosissimo.Ma quest'anno, al pio ricordo di quei luoghi santi, il Nostro animo è profondamente addolorato, per la loro critica e incerta situazione.Già nello scorso anno con due Nostre lettere encicliche, vi abbiamo caldamente esortato, venerabili fratelli, a indire pubbliche e solenni preghiere, per affrettare la cessazione del conflitto che insanguinava la terra santa, e ottenere una sua giusta sistemazione, che assicurasse piena libertà ai cattolici, e la conservazione e tutela di quei sacri luoghi.
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Paolo VI in Terra Santa: un viaggio tra luoghi santi ed equilibri politici
Nostra aetate: la Chiesa inizia il lungo processo di revisione dei propri pregiudizi antigiudaici e antisemiti
Il viaggio di Paolo VI in Terra Santa si è svolto nello stesso periodo in cui era in corso il Concilio Vaticano II (1962-1965), durante il quale, il 28 ottobre 1965, è stata emanata la dichiarazione Nostra aetate, con la quale la chiesa cattolica ha superato le proprie posizioni antigiudaiche e antisemite.
Fin dall’inizio del suo pontificato, Giovanni XXIII si è dimostrato disponibile a rivedere il rapporto tra la chiesa cattolica e l’ebraismo impegnandosi concretamente affinché ciò avvenisse. Ad esempio, nel 1959 ha modificato la preghiera universale per gli ebrei, Oremus et pro perfidis judaeis, inserita ufficialmente nella liturgia cattolica romana con il Messale Romano di Pio V, nel 1570, e pronunciata in occasione del Venerdì Santo e del rituale del Battesimo dei catecumeni, eliminando le espressioni perfidus e perfidia utilizzate per riferirsi agli ebrei; nel 1960 ha ricevuto in udienza lo storico ebreo Jules Isaac (1877-1963), che ha fatto notare al pontefice la necessità di rimuovere le radici dell’antisemitismo cattolico.
La riflessione sul rapporto tra la chiesa cattolica e gli ebrei è divenuta oggetto di interesse e di riflessione durante il Concilio Vaticano II solo in seguito alla chiusura della prima sessione, il 4 dicembre 1962. Durante i lavori conciliari, la questione del rapporto con gli ebrei è divenuta poi parte del più ampio tema riguardante le relazioni della chiesa cattolica con le altre religioni, affrontato nella dichiarazione conciliare Nostra aetate.
Tale dichiarazione ha rappresentato una svolta nel rapporto tra la chiesa cattolica e il popolo ebraico, ma non ha influenzato positivamente le relazioni tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele. Difatti, la questione dello Stato d’Israele è stata oggetto di molte discussioni durante le varie stesure della dichiarazione ed è stata poi volutamente evitata nella redazione del testo finale, principalmente per non rischiare di mettere in pericolo le comunità cattoliche presenti nei paesi arabi. Di conseguenza, il quarto punto della dichiarazione si concentra esclusivamente sul dialogo religioso tra cattolici ed ebrei.
Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l'interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane. Nel suo dovere di promuovere l'unità e la carità tra gli uomini, ed anzi tra i popoli, essa in primo luogo esamina qui tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino.
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Riferimenti bibliografici
G. Miccoli, Due nodi: la libertà religiosa e le relazioni con gli ebrei, in G. Alberigo (a cura di), Storia del Concilio Vaticano II. Vol. 4: La chiesa come comunione. Il terzo periodo e la terza intersessione, Bologna, il Mulino 1999
Sull’incontro tra Giovanni XXIII e Jules Isaac si veda anche:
Per approfondire, segui il il kit di Pars Dialogo ebraico-cristiano a cura di Marco Cassuto Morselli. Vai al kit...
La rinnovata attenzione per la città di Gerusalemme
L'umanità intera, e in primo luogo i popoli e le nazioni, che hanno in Gerusalemme i loro fratelli di fede, cristiani, ebrei e musulmani, hanno motivo di sentirsi in causa e di fare il possibile per preservare il carattere sacro, unico e irripetibile della città. Non solo i monumenti o i luoghi santi, ma tutto l'insieme della Gerusalemme storica e l'esistenza delle comunità religiose, la loro condizione, il loro avvenire non possono non essere oggetto di interesse e di sollecitudine da parte di tutti.
In effetti, è doveroso che si trovi, con buona volontà e lungimiranza, un modo concreto e giusto con cui i diversi interessi e aspirazioni siano composti in forma armonica e stabile e siano tutelati in maniera adeguata ed efficace da uno speciale statuto internazionalmente garantito, così che una parte o l'altra non possa rimetterlo in discrimine.
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La lettera di Giovanni Paolo II però non ha avuto nessuna conseguenza diretta, anche perché da tempo la questione di Gerusalemme non era più oggetto di attenzione sia nel dibattito internazionale che dell’opinione pubblica.
Verso la firma dell’Accordo fondamentale tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele
Il 22 gennaio 1991, il rabbino capo di Roma, Elio Toaff, insieme al consiglio della comunità ebraica romana, ha pubblicato un appello finalizzato a sollecitare il riconoscimento diplomatico dello Stato d’Israele da parte di Giovanni Paolo II.
Il 27 gennaio 1991, durante l’Angelus del papa in piazza San Pietro, si è svolta una manifestazione silenziosa di centinaia di ebrei che hanno esibito la bandiera dello Stato d’Israele affinché il pontefice lo riconoscesse diplomaticamente.
Giovanni Paolo II ha quasi finito di parlare. Sotto la sua finestra di piazza San Pietro, in mezzo ai cattolici, una strana piccola folla aspetta impaziente: 1500 persone e ognuna ha in mano la bandiera bianca e celeste con la stella di David, 1500 ebrei romani. Sono insoddisfatti della risposta che il Vaticano ha dato alla richiesta del rabbino Toaff e della Comunità ebraica perché il Vaticano riconosca lo Stato di Israele, e son venuti a farlo vedere. Eppure Wojtyla (è domenica mattina) parla di pace, definisce assurda la guerra in corso, ma non cita Israele. E così gli ebrei romani chiedono, chiedono apertamente, come non si usa fare durante l' Angelus, scandiscono più volte ad alta voce il nome di I-sra-ele. I-sra-ele gridano, e il papa, dopo poco, inaspettatamente, risponde improvvisando: Vedo la parola Shalom, vuol dire pace, auguro la pace al vostro popolo e allo Stato di Israele.
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Tali iniziative però hanno rappresentato dei tentativi vani perché gli sviluppi della Guerra del Golfo (1990-1991) e la conseguente preoccupazione per le comunità cristiane mediorientali hanno alimentato le preoccupazioni del Vaticano nei confronti dello Stato d’Israele.
L’Accordo fondamentale tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele
Il processo di pacificazione tra lo Stato d’Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che ha condotto agli Accordi di Oslo nel 1993, ha giocato un ruolo importante nell’avvicinamento diplomatico tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele.
Il 29 giugno 1992, la Santa Sede e lo Stato d’Israele hanno istituito una Commissione bilaterale permanente di lavoro, i cui incontri sono iniziati nell’estate del 1992 e sono entrati nel vivo della questione nel novembre dello stesso anno.
La stesura dell’Accordo fondamentale tra i due Stati è stata completata il 30 dicembre 1993 e lo stesso giorno il viceministro degli esteri, rappresentante della delegazione israeliana, Yossi Beilin, e il capo della delegazione del Vaticano, monsignor Claudio Maria Celli, lo hanno firmato a Gerusalemme, ripetendo il rituale della firma il giorno successivo in Vaticano.
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Il testo dell’Accordo fondamentale
Risulta molto interessante il testo dell’Accordo fondamentale, specialmente nel prologo, perché in esso viene superato il principio che ha da sempre caratterizzato la politica vaticana nei confronti dello Stato d’Israele: tenere ben separati l’aspetto religioso e l’aspetto politico nei rapporti tra la chiesa cattolica, gli ebrei e lo Stato d’Israele. Difatti, nel testo si legge:
“The Holy See and the State of Israel,
Mindful of the singular character and universal significance of the Holy Land;
Aware of the unique nature of the relationship between the Catholic Church and the Jewish people, and of the historic process of reconciliation and growth in mutual understanding and friendship between Catholics and Jews”.
(Acta Apostolicae Sedis, vol. LXXXVI (1994), n. 9, p. 176)
“La Santa Sede e lo Stato d’Israele,
memori del carattere straordinario e del significato universale della Terra Santa;
consapevoli della natura unica delle relazioni tra la Chiesa cattolica e il popolo ebraico, e del processo storico di riconciliazione e di crescita nella comprensione reciproca e nell’amicizia tra cattolici ed ebrei”.
Inoltre, una delle principali preoccupazioni della Santa Sede riguardava la questione della città di Gerusalemme, che però non viene menzionata nell’Accordo fondamentale, in cui ci si limita a dichiarare che entrambi gli Stati si impegnano a rispettare lo status quo dei luoghi santi cristiani. A tal proposito, il portavoce dell’ufficio stampa della Santa Sede, durante la conferenza stampa tenutasi in occasione della firma dell’Accordo, ha affermato che il carattere internazionale della questione non consente la sua risoluzione in un accordo bilaterale.
Leggi il testo originale inglese dell'Accordo fondamentale tra Vaticano e Israele...
In seguito alla firma dell’Accordo fondamentale, sono state istituite le relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Stato d’Israele, nel 1994. In questo modo è stata definitivamente superata la distanza diplomatica tra i due Stati, risolvendo così anche un’importante questione nel rapporto tra ebraismo e cattolicesimo.