Le origini del metodismo in Italia risalgono agli anni dell’unificazione nazionale. Tra il 1859 e il 1861 furono i missionari metodisti inglesi (cosiddetti wesleyani) a raggiungere l’Italia richiamati dalla prospettiva di libertà religiosa che il moto risorgimentale sembrava aprire. Circa dieci anni dopo, nel 1871, fu la volta dei missionari della Chiesa metodista episcopale degli Stati Uniti (cosiddetti episcopali).
Nel saggio Il sogno protestante Silvana Nitti ricostruisce i motivi e le dinamiche dell’incontro tra il missionarismo anglosassone e il Risorgimento nazionale.
 
Alla metà dell’Ottocento l’Inghilterra («questa infaticabile creatrice d’autonomie», come scrisse Giuseppe Gangale)1 dedicava un’attenzione tutta particolare all’Italia. In un quadro internazionale di aspri interessi strategici – il processo unitario allontanava il rischio dell’egemonia francese sulla penisola e faceva sorgere nello scacchiere del Mediterraneo uno stato potenzialmente alleato – avevano non poca parte anche ragioni del tutto diverse. Il reverendo James Dixon, che era stato presidente della Conferenza metodista britannica, in un discorso nel 1849 disse a proposito delle Valli Valdesi: «Ci si trova proprio sul confine dell’Italia. Metti un missionario o due che stiano attenti al procedere degli eventi, e, se questi si realizzeranno, lasciali senz’altro andare». Gli eventi che dovevano ‘procedere’, e cui un missionario metodista doveva stare attento, erano appunto quelli che avrebbero potuto spalancare alla predicazione evangelica il territorio di un paese unificato sotto una monarchia costituzionale.

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                                   Interno della Chiesa metodista di Via XX Settembre a Roma. La chiesa, in origine episcopale, fu inaugurata il 20 settembre del 1895.

 

 

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