La Dichiarazione adottata dal Sinodo della Chiesa Ortodossa Russa condannava inoltre la decisione di Costantinopoli di «restaurare al rango episcopale o sacerdotale» i leader dello scisma ucraino e dei loro seguaci abilitando in questo modo il «ritorno dei loro credenti alla comunione ecclesiale»; e di «cancellare la validità» della gramota conciliare del Patriarcato di Costantinopoli del 1686, riguardante il trasferimento della metropolia di Kiev al Patriarcato di Mosca.
Sulla divisione delle Chiese Ortodosse Ucraine si è già detto precedentemente, per un’analisi dell’atto del 1686 e del significato della “subordinazione” della metropolia di Kiev al Patriarcato di Mosca si rimanda al saggio del Professor Vittorio Parlato, L’autocefalia della chiesa ortodossa ucraina, interpretazioni dottrinali e strutture ecclesiali a confronto, pubblicato sulla rivista telematica Stato, Chiese e pluralismo confessionale.
La questione dell’autocefalia alla chiesa ucraina si trascina da più decenni e rientra nel desiderio di ogni Stato di avere una propria chiesa indipendente da ogni altra. Ogni nazione che riusciva a liberarsi dal giogo ottomano voleva istituire una propria chiesa nazionale, libera da interferenze esterne; questo è stato il motivo ispiratore e conduttore della creazione delle chiese autocefale, un desiderio che trova fondamento nell’ecclesiologia ortodossa che vede le chiese legate ai propri Stati e che considera l'importanza della sede episcopale religiosa connessa all'importanza civile della città. Ogni chiesa è l'espressione della tradizione cultura religiosità di ogni etnia e quindi di ogni Stato nazionale indipendente; questa tesi (filetismo), dapprima è stata respinta dal patriarcato di Costantinopoli già nel lontano 1872, con implicito riferimento alla rivendicata autocefalia della Chiesa bulgara, ma di fatto, poi, fu accettata anche da quel patriarcato.