La poesia di Padre Turoldo è un «diario» intimo e uno specchio del suo vissuto esistenziale, tanto da realizzare una «perentoria... inscindibilità tra vita ed opera». Nelle sue liriche emerge un «io storico, carnale e esistenziale» che non teme l'esposizione personale, anche «impudica», sia nel raccontare i tormenti della rinuncia sacerdotale, come si vede in Io non ho mani, sia nell'esprimere il suo profondo bisogno di servizio e coinvolgimento nel dolore della città e dei poveri. Questa spiritualità si fonda su un profondo amore per la realtà materiale: Turoldo fu"innamorato del terrestre", come suggerisce il titolo O sensi miei…, riconoscendo nei sensi «le cinque operazioni divine» e nel corpo «la sede della divinità». Questa passione per la realtà materiale (terra, mondo, creatura) si intrecciava con la sua visione del cristianesimo, alimentata dalle origini contadine e dalla pratica della Bibbia, rivendicando una teologia dell'incarnazione nella storia e nel cosmo che superava il dualismo tradizionale, prefigurando una «speranza integrale» umana e divina. Il debito letterario e spirituale più grande di Turoldo è proprio verso la Bibbia, libro che considerava la fonte della sua poesia. La sua opera è «totalmente intarsiata e innervata di citazioni» e personaggi biblici, usati in un processo di attualizzazione che porta il testo sacro a confrontarsi con il vissuto presente (mettendo in parallelo, ad esempio, Geremia con figure contemporanee di giustizia come il vescovo Oscar Romero). La Bibbia conferiva alla sua poesia una potente carica eversiva di denuncia e profezia, poiché, come affermava Turoldo, il profeta non è colui che annuncia il futuro, ma «colui che in pena denuncia il presente», che «Straniero agli stessi fratelli / sola compagna una fede/ che è mistero a me stesso».
La poesia di Turoldo è depositaria della memoria di un’talia che non esiste più. Il ricordo dell’odore del pane o il profumo della polenta colore dell’oro funzionano da correlativo oggettivo di un passato perduto (Ma il grande folle) e anche solo rivolgere verso di esso il pensiero è utopia. Ma la sua poesia è densa di una memoria quanto mai attuale (Torniamo ai giorni del rischio) che ci interroga e ci spinge verso una fede non esente dal dubbio, ma che nel dubbio e dal dubbio trae la sua forza e la speranza: non più questi termitai/ non più catene dolomitiche/ di grattacieli/ non più urli di sirene/ non più guardie/ a presiedere le porte/ non più selve di ciminiere… saremo in quest'unico incendio/ e invece di incenerire usciremo/ nuovi come zaffiri/ e avremo occhi di topazio:/ quando appunto Egli dirà/ "ecco, già nuove sono fatte tutte le cose"/ allora canteremo/ allora ameremo/ allora allora...(Ballata della speranza).
Ma leggiamo alcuni versi di Padre Turoldo:
Io non ho maniche mi accarezzino il volto,(duro. l’ufficiodi queste paroleche non conoscono amori)non so le dolcezzedei vostri abbandoni:ho dovuto esserecustodedella vostra solitudine:sonosalvatoredi ore perdute.
(Io non ho mani, 7)
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