Il sufismo indiano. L'incontro tra Islam e induismo
Il kit Il sufismo indiano. L'incontro tra Islam e induismo, è stato realizzato grazie al contributo di Luca Villa, dottore di ricerca in Indologia e Tibetologia e collaboratore della Fondazione scienze religiose di Bologna. Attraverso la proposta di articoli e saggi che esaminano l'argomento per mezzo di una prospettiva storica e socio-culturale, il kit presenta le peculiarità delle confraternite sufi fiorite in India in seguito all'affermazione e alla conquista del subcontinente da parte di sovrani musulmani, dal momento in cui si consolidarono gli ordini sufi fino ad anni recenti, sia per i tratti distintivi che caratterizzavano coloro che furono influenzati dall'induismo, sia per le risposte delle correnti più ortodosse.
La cultura musulmana dell'India
L'approfondimento inizia con la lettura dell'introduzione al saggio di Daniela Bredi Storia della cultura indo-musulmana, pubblicato da Carocci editore, che permette di contestualizzare geograficamente ciò che si intende per area culturale indiana , ovvero un territorio che comprende anche gli attuali Pakistan e Bangladesh. L'estratto consente inoltre di comprendere come religione musulmana e società indiana siano profondamente connesse, un tema che sarà ripreso nel prosieguo del kit nell'affrontare il tema del sufismo in India.
Attualmente vivono in Asia meridionale più di venticinque milioni di musulmani, suddivisi in tre stati: Pakistan e Bangladesh, in cui sono la stragrande maggioranza, e India, dove costituiscono la minoranza più numerosa. Ciò significa che la popolazione musulmana dell’Asia meridionale forma più di un quarto di quella mondiale. Eppure l’Islam indiano è considerato marginale, perché nell’opinione comune l’Islam viene identificato con i paesi arabi, o tutt’al più con quelli mediorientali. Tuttavia, la vitalità e l’originalità di cui l’Islam indiano ha dato prova nel corso della storia, unita ai problemi politici che scaturiscono da una così consistente presenza musulmana in quest’area, ne rende opportuna una conoscenza che non si limiti a prendere atto della sua esistenza.
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Deccan conteso
Sara Mondini, nel saggio Deccan conteso, pubblicato all'interno del volume L’architettura del Deccan tra il XIV e il XVI secolo, uscito per le edizioni Ca' Foscari, esamina le vicende che portarono all'espansione del dominio musulmano nella parte meridionale del subcontinente indiano successivamente al consolidamento del controllo della piana gangetica (1290-1526), ma prima della formazione dell'impero Moghul (1526), i cui destini si intrecciarono in vario modo con le confraternite sufi indiane. Inoltre, il saggio di Mondini seppur con riferimento all'arte, ha il pregio di sottolineare come la divisione tra hindu e musulmani non sia stata così netta come è ricostruita e proposta nel corso del Novecento, in seguito alla Partition dell'India.
Quando i musulmani penetrarono nell’India del nord, la regione deccanese rivestiva già una notevole importanza. Nell’VIII secolo, in seguito alla caduta della dinastia Chalukya, nella regione era emersa la nuova potenza dei Rashtrakuta di Malkhed e fu sotto il loro dominio che, in breve tempo, il Deccan divenne un importante centro di potere e riferimento politico per l’intero subcontinente. Dal X secolo in poi, a governare la zona furono i Chalukya di Kalyani, mentre nelle regioni più settentrionali, un tempo dominate dall’impero Satavahana, nel corso dei secoli XII e XIII si installò la dinastia Yadava (1185-1318),1 costituendo il regno che verso la fine del XIII secolo avrebbe orgogliosamente resistito ai primi tentativi concreti di sottomissione da parte del sultanato di Delhi (Michell, Zebrowsky 1999, 5; Kulke, Rothermund 2004, 113-16, 170-1).
L’attrazione esercitata dalla grande abbondanza di ricchezze presenti sul territorio, controllate dai regni hindu degli Yadava di Devagiri, dei Kakatiya di Warangal e dei Pandya e Hosayla più a sud, fu apparentemente decisiva nel radicare le intenzioni di conquista e nell’intensificare gli attacchi mossi da parte di ʿAlaʾuddin Khalji (r. 1296-1316) e dal suo generale Malik Kafur (m. 1316)2 a partire dal 1296 (Eaton 2005, 9-32). Durante quella che è comunemente riconosciuta come la prima fase del sultanato di Delhi...
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Impero Moghul
Il Dizionario di Storia edito dall'Istituto Treccani propone un breve approfondimento che chiarisce la scansione temporale del dominio Moghul dell'India e indica quali furono le figure principali, i cui nomi torneranno nella continuazione dell'approfondimento, quando saranno chiariti i caratteri peculiari del sufismo indiano.
Fondato nel 1526 in India da Babur sulle rovine del sultanato di Delhi, durò, con declinante fortuna, fino al 1858. Di stirpe turca, discendente di Tamerlano, Babur apparve in India rivendicando i territori già occupati dall’avo. La vittoria di Panipat nel 1526 sull’esercito di Ibrahim Lodi segnò l’inizio dell’impero Mughal. Babur sconfisse in seguito gli eserciti dei principali clan rajput, ma la prematura morte (1530) ne interruppe lo slancio. Gli successe il figlio Humayun (1530-56), che perse inizialmente il regno, riconquistato solo nel 1555. Il figlio Akbar (1556-1605) consolidò il dominio. Grazie a una alleanza matrimoniale con il maharaja di Amber, Biharamal, ottenne l’alleanza dei rajput e l’azione militare gli consentì di controllare tutto il Nord dell’India, Kashmir incluso. Tra il 1574 e il 1576 si allargò al Gujarat, al Deccan settentrionale, al Bengala, all’Orissa arrivando fino a Kandahar, in Afghanistan. Akbar riorganizzò lo Stato e governò con saggezza e spirito di apertura.
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La meravigliosa India di Akbar
Alla corte di Akbar, il più famoso tra gli imperatori Moghul che regnò dal 1556 al 1605, si respirava un'atmosfera di apertura religiosa. In occasione della mostra Akbar. Il grande imperatore dell' India svoltasi presso il Palazzo Sciarra di Roma, i curatori ne hanno presentato le caratteristiche e le immagini che ben rappresentano il clima culturale di quel periodo in India.
Che nessuno si intrometta nelle faccende altrui in riferimento alla religione, e che a ciascuno sia consentito di accostarsi alla religione che gli aggrada.
Akbar
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Il principe moghul e la «congiunzione dei due oceani»
Il principe moghul e la «congiunzione dei due oceani». Per una ermeneutica della traducibilità delle religioni è il titolo di un saggio di Elisabetta Colagrossi in cui l'autrice considera l'approccio nei confronti della religione e la vicinanza ad alcune confraternite sufi di Dārā Šikōh, nipote di Akbar. Lo studio e la pubblicazione di traduzione di testi hindu in arabo, che tramite queste interpretazioni furono poi conosciuti anche in Europa, dimostra la permeabilità della corte Moghul al confronto tra religioni e conferma alcuni dei presupposti in ragione dei quali alcune confraternite sufi di matrice araba e centro-asiatica furono influenzate dalla tradizione spirituale hindu.
Anche se non conosciamo con certezza la sede dell’‘Ibadat Khāne, il luogo in cui in India, a partire dal 1578, il sovrano moghul Akbar si impegnava a dibattere sottili questioni teologiche e filosofiche con i sapienti di diverse confessioni religiose, piace immaginare che sia stata l’edificio indiano conosciuto come Diwān-i-khās o “Casa del gioiello”. Esso sembra essere, come osserva Abraham Eraly, «la cristallizzazione in pietra dello sforzo di Akbar di attingere saggezza da ogni direzione, oppure di irradiare saggezza in ogni direzione». L’edificio, a base quadrata, è costituito da un’unica bellissima sala al cui centro si innalza una poderosa colonna di pietra magnificamente decorata, culminante in un capitello a trentasei raffinate mensole. Sottili passerelle di pietra si estendono in diagonale dal capitello collegando i quattro angoli della stanza. Si ritiene che il sovrano dibattesse con i maestri delle varie tradizioni seduto proprio al centro della sala, nel punto di congiunzione dei quattro ponti.
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Sufismo e hinduismo
Mohammad Rafique ha pubblicato un saggio dal titolo Sufismo e hinduismo: reciproche influenze nella storia e prospettive di convergenza culturale all'interno del volume Sufismo e confraternite nell'islam contemporaneo curato da Marietta Stepanyants. Nel contributo si trova una sintesi dell'apporto del pensiero hindu ad alcune tra le confraternite sufi presenti in India, così come le reazioni di altri gruppi, più ortodossi, che tentarono di far prevalere comportamenti e concetti coerenti con i dettami del Corano.
Il sufismo, ossia il misticismo islamico, ebbe origine e sviluppò all'interno dell'Islam. I sufi fanno risalire al Corano e agli hadit le proprie fonti, mentre i più antichi esponenti di tale corrente erano musulmani devoti, profondamente dediti allo studio dell'islam e all'osservanza delle norme contenute nella sar'ia. Tuttavia, con il passare del tempo, il sufismo assorbì elementi che sono da considerarsi sicuramente estranei all'islam. Al riguardo, un autore osserva: «Se da un lato il sufismo si trovava confinato entro gli angusti limiti posti dalla teologia islamica, dall'altro esso sperimentava un arricchimento e un ampliamento di vedute grazie all'adozione di modi di pensare e di visioni del mondo non islamici»
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L’uomo e l’universo nel sufismo indiano
Thomas Dähnhardt, nel saggio Luci celesti e riflessi terrestri. L’uomo e l’universo nel sufismo indiano, presenta alcune delle caratteristiche peculiari del sufismo indiano con riferimento specifico alle teorie esoteriche ed essoteriche professate dai sufi in India, compresa l'unicità dell'essere (wahdat al-wujūd), ovvero della corrispondenza tra macrocosmo (‘ālam al-kabīr) ed essere umano, inteso come microcosmo (‘ālam al-ṣaghīr). Permette così di conoscere meglio le trame della fede professata dai sufi.
La maniera in cui si articola la Tradizione islamica vuole che per i musulmani ogni tipo di scienza (‘ilm) si differenzi in due aspetti distinti, ma complementari, che riflettono la costituzione stessa del Dīn: quello esteriore (‘ilm al-ẓāhir) che prende in considerazione il lato apparente-fenomenico della creazione e quello interiore (‘ilm al-bāṭin) che investiga e interpreta il creato nella sua inerente valenza trascendentale. In questa ottica, la scienza che si occupa del cielo e degli astri, della loro natura e della loro funzione complessiva in ambito cosmico, trova espressione da un lato nell’astronomia
(ar.: ‘ilm al-ḥay’at al-aflāk, la scienza delle figure celesti), basata sull’osservazione dei corpi celesti, lo studio del loro movimento nello spazio e la struttura di quello stesso spazio in cui tali fenomeni si inseriscono, campo a cui i musulmani da sempre hanno dedicato grande attenzione e a cui furono in grado di dare un contributo significativo.
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Lettere da un maestro sufi
Demetrio Giordani ha compiuto numerosi studi su Ahmad Sirhindī, uno dei maggiori esponenti del sufismo indiano del XVII, che mantenne sempre una posizione prevalentemente contraria alle influenze dell'induismo sulle teorie e sulle pratiche sufi. Due degli articoli di Giordani, in particolare, presentano in traduzione lettere di Ahmad Sirhindī. Consentono di conoscere più da vicino il pensiero del rappresentante dell'ordine della Naqšbandiyya, che ha influenzato fino a oggi l'evolversi del dibattito tra confraternite indiane.
La figura di Ahmad Sirhindī è strettamente legata alla straordinaria diffusione della Naqšbandiyya, ordine sūfī di origine centro-asiatica, di cui egli assunse la direzione in India a partire dei primi anni del XVII secolo, e che da allora divenne, proprio grazie alla sua opera di rinnovamento, l’ordine che in vario modo tentò di riaffermare, in tutto mondo arabo-islamico, il rispetto dell’ortodossia e la centralità della figura del Profeta. L’ordine fu diffuso inizialmente in Asia Centrale, da Hwājah Bahā’ud-Dīn Naqšband (1317-1389) nativo di Bukhara, da cui successivamente prese il nome. Prima di lui l’ordine dei Naqšbandī fu guidato da altre importanti figure, come Hwājah Yūsuf Hamadānī (1048-1140), poi da ‘Abdul Hāliq Ġujduwānī (m. 1179) che istituì alcune fondamentali regole rituali. Costoro costituirono, insieme ad altri, la prima linea spirituale dell’ordine, chiamata silsila-yi hwajaġān, la “catena dei venerabili maestri”.
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Il ruolo del sufismo e delle confraternite musulmane nell'India contemporanea
Il volume Sufismo e confraternite nell'islam contemporaneo presenta un saggio di Marc Gaborieau dal titolo Il ruolo del sufismo e delle confraternite musulmane nell'India contemporanea. Oltre ad avere il pregio di riassumere i temi affrontati fino a questo punto del kit, elenca le confraternite sufi, ne descrive le attività in epoca odierna e traccia una panoramica della loro influenza sulla società indiana al principio del Ventunesimo secolo. Una conclusione che riporta la storia e la diffusione del sufismo indiano fino ai giorni nostri.
L'area geografica presa in considerazione è l'India, intesa in senso storico, vale a dire l'intero subcontinente, a prescindere dalle frontiere nate dalla spartizione avvenuta nel 1947: Unione indiana, Pakistan e Bangladesh.
Nel saggio viene presentato un particolare approccio al sufismo indiano, che non è quello dell'islamologo o dello storico, ma si basa sull'antropologia storica. L'interesse principale, come si vedrà nella seconda parte, va alla collocazione del sufismo nella struttura della società indiana...
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