Il principe moghul e la «congiunzione dei due oceani». Per una ermeneutica della traducibilità delle religioni è il titolo di un saggio di Elisabetta Colagrossi in cui l'autrice considera l'approccio nei confronti della religione e la vicinanza ad alcune confraternite sufi di Dārā Šikōh, nipote di Akbar. Lo studio e la pubblicazione di traduzione di testi hindu in arabo, che tramite queste interpretazioni furono poi conosciuti anche in Europa, dimostra la permeabilità della corte Moghul al confronto tra religioni e conferma alcuni dei presupposti in ragione dei quali alcune confraternite sufi di matrice araba e centro-asiatica furono influenzate dalla tradizione spirituale hindu.

 

Contemplating the Face of the Master: Portraits of Sufi Saints as Aids to Meditation in Seventeenth-Century Mughal India

 
 
 
Anche se non conosciamo con certezza la sede dell’‘Ibadat Khāne, il luogo in cui in India, a partire dal 1578, il sovrano moghul Akbar si impegnava a dibattere sottili questioni teologiche e filosofiche con i sapienti di diverse confessioni religiose, piace immaginare che sia stata l’edificio indiano conosciuto come Diwān-i-khās o “Casa del gioiello”. Esso sembra essere, come osserva Abraham Eraly, «la cristallizzazione in pietra dello sforzo di Akbar di attingere saggezza da ogni direzione, oppure di irradiare saggezza in ogni direzione». L’edificio, a base quadrata, è costituito da un’unica bellissima sala al cui centro si innalza una poderosa colonna di pietra magnificamente decorata, culminante in un capitello a trentasei raffinate mensole. Sottili passerelle di pietra si estendono in diagonale dal capitello collegando i quattro angoli della stanza. Si ritiene che il sovrano dibattesse con i maestri delle varie tradizioni seduto proprio al centro della sala, nel punto di congiunzione dei quattro ponti.

 

 

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