Giuseppe Turolodo nasce a Coderno di Sedegliano in provincia di Udine il 22 novembre 1916. Ultimo di otto fratelli vive nel Friuli impoverito e martoriato della Prima Guerra Mondiale. A tredici anni entra nell’ordine dei Servi di Maria, nel 1930 è ammesso all’Istituto Missioni dei Servi di Maria a Vicenza. Il 30 ottobre del 1938 pronuncia i voti solenni e il 18 agosto 1940 viene ordinato presbitero. A Milano dal 1941 frequenta i corsi di filosofia dell’Università Cattolica e matura una coscienza antifascista che diviene azione e resistenza sociale con la fondazione del foglio clandestino L’uomo
Non dimentica però il Friuli e proprio a Milano la fondazione del Cinema Studio testimonia l’interesse per il cinema come mezzo per parlare agli uomini del suo tempo che animerà il progetto degli anni Sessanta di una trilogia di cui solo Gli ultimi (1962), ispirato al racconto Io non ero un fanciullo e su soggetto di padre Turoldo stesso, vedrà la luce. Protagonista è Checo, figlio di contadini affittuari, deriso dai coetanei e chiamato “Spaventapasseri”, che si presenta così:
 

“Era una triste e insieme inevitabile convinzione: che fosse vivo. Vivo come me. Non che sapessi cosa volesse dire «vivo». Forse, a parole, non lo saprei imbastire neppure oggi. Neppure sapevo il significato di «come me». Ecco, più tardi, io gli parlavo, gesticolavo come lui, gli rivolgevo domande; per i primi anni da lontano, s’intende. Ora gli gridavo a piena voce e ora invece timidamente, con paura che mi facesse il verso. Poi sillabavo da me le risposte, convintissimo fosse lui a rispondere… Invece ero io, io stesso. A pensarci mi si vela ancora oggi la vista e mi si arrugginisce la voce. Un bel rischio ho passato!
La colpa non era tutta mia; era dei compagni, anche. Quei compagni!… Era dei miei fratelli, almeno di Lino, maggiore di me di due anni: spesso bisticciavamo, e pure loro mi chiamavano a volte con quel nome. Forse causa involontaria ne era anche mia madre, che mi vestiva con gli ultimi stracci della casa; con un cappello di paglia l’estate, il quale sembrava un fondo di pattumiera, rosicchiato dai topi; e un vecchio cappello d’alpino d’inverno, o una bustina da esercito non so se italiano o austriaco: avanzi e detriti delle invasioni che venivano, certo, a portare civiltà a quella povera terra del Friuli, pestata da tutti a ogni guerra. Un berretto che i compagni (sempre i compagni!) spesso mi strappavano dalla testa a cuneo – il cuneo da spaccalegna per sventrare i ciocchi duri – e attaccavano a un albero, e poi giù a gara, in un guerresco tiro a segno. Io dovevo starmene lì, in disparte, a guardare, magari piangendo, ma con nessuno diritto di protestare. Dopo, quando tutti se ne andavano, maledettamente soddisfatti, io dovevo raccattarmelo, battere giù la polvere zitto zitto, e andarmene…”

 
Per un approfondimento dei vari passaggi della biografia di Turoldo si rinvia alla voce del Dizionario biografico degli italiani redatta da Mariangela Maraviglia: 
 

Ultimo di otto fratelli, nacque a Coderno di Sedegliano (Udine) il 22 novembre 1916 da Giovanni e da Anna di Lenarda.
La famiglia condivideva la povertà di un Friuli martoriato dall’arretratezza economica e dall’imperversare della prima guerra mondiale: il padre, piccolo affittuario, era costretto a integrare il magro reddito lavorando come bracciante; due figli morirono da piccoli, due dovettero emigrare all’estero, le due figlie impiegarsi giovanissime a servizio lontano da casa.
Anche se fu un tempo di fame e di miseria Turoldo rievocò più volte questa sua «infanzia d’oro» perché vi apprese un patrimonio di valori che avrebbe contrassegnato la sua vita e la sua opera. I genitori rimasero nella sua memoria come i primi e «più grandi maestri».