“Era una triste e insieme inevitabile convinzione: che fosse vivo. Vivo come me. Non che sapessi cosa volesse dire «vivo». Forse, a parole, non lo saprei imbastire neppure oggi. Neppure sapevo il significato di «come me». Ecco, più tardi, io gli parlavo, gesticolavo come lui, gli rivolgevo domande; per i primi anni da lontano, s’intende. Ora gli gridavo a piena voce e ora invece timidamente, con paura che mi facesse il verso. Poi sillabavo da me le risposte, convintissimo fosse lui a rispondere… Invece ero io, io stesso. A pensarci mi si vela ancora oggi la vista e mi si arrugginisce la voce. Un bel rischio ho passato!
La colpa non era tutta mia; era dei compagni, anche. Quei compagni!… Era dei miei fratelli, almeno di Lino, maggiore di me di due anni: spesso bisticciavamo, e pure loro mi chiamavano a volte con quel nome. Forse causa involontaria ne era anche mia madre, che mi vestiva con gli ultimi stracci della casa; con un cappello di paglia l’estate, il quale sembrava un fondo di pattumiera, rosicchiato dai topi; e un vecchio cappello d’alpino d’inverno, o una bustina da esercito non so se italiano o austriaco: avanzi e detriti delle invasioni che venivano, certo, a portare civiltà a quella povera terra del Friuli, pestata da tutti a ogni guerra. Un berretto che i compagni (sempre i compagni!) spesso mi strappavano dalla testa a cuneo – il cuneo da spaccalegna per sventrare i ciocchi duri – e attaccavano a un albero, e poi giù a gara, in un guerresco tiro a segno. Io dovevo starmene lì, in disparte, a guardare, magari piangendo, ma con nessuno diritto di protestare. Dopo, quando tutti se ne andavano, maledettamente soddisfatti, io dovevo raccattarmelo, battere giù la polvere zitto zitto, e andarmene…”
Ultimo di otto fratelli, nacque a Coderno di Sedegliano (Udine) il 22 novembre 1916 da Giovanni e da Anna di Lenarda.
La famiglia condivideva la povertà di un Friuli martoriato dall’arretratezza economica e dall’imperversare della prima guerra mondiale: il padre, piccolo affittuario, era costretto a integrare il magro reddito lavorando come bracciante; due figli morirono da piccoli, due dovettero emigrare all’estero, le due figlie impiegarsi giovanissime a servizio lontano da casa.
Anche se fu un tempo di fame e di miseria Turoldo rievocò più volte questa sua «infanzia d’oro» perché vi apprese un patrimonio di valori che avrebbe contrassegnato la sua vita e la sua opera. I genitori rimasero nella sua memoria come i primi e «più grandi maestri».